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L'orgoglio di essere meridionali

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Risorgimento



Luigi Corsi PDF Stampa E-mail

Figlio di un colonnello di cavalleria, nel 1821 era sottotenente di artiglieria partecipando alle vicende di quell'anno.

Nel 1829 era primo tenente e dopo un periodo di esperienza al neo nato stabilimento di Torre Annunziata venne scelto dal re Ferdinando II nel 1837 per dirigere una officina situata nello stesso palazzo reale dove furono costrite le prime macchine a vapore. Il laboratorio ebbe una grande richiesta di lavori tanto che Carlo Filangieri decise di fare costruire un apposito stabilimento alle falde del Vesuvio, l'opificio di Pietrarsa.

Il comando fu affidato a Luigi Corsi.

Fino al 1860 l'opificio ne resse le sorti con grande intelligenza ed estrema serietà.

Dal suo stabilimento uscirà tutto il materiale rotabile delle ferrovie napoletane, le locomotive a vapore, il ferro sul ponte Calore e tante altre commesse..

Entrati i garibaldesi a Napoli, Luigi Corsi resse il comando per pochi giorni e anche se invitato dal governo sardo a rimanere al suo posto, preferì dimettersi , non senza prima avere ricordato in una memoria allo stesso governo piemontese che la qualità dei prodotti di Pietrarsa era superiore a quella dei medesimi prodotti provenienti da altre parti d'Italia e dell'estero e che il costo superiore era dovuto alla necessità di mantenere in vita un industria giovane ma locale.

Non fu ascoltato e anche Pietrarsa venne smantellata e ridotta come fu per Mongiana , S. Leucio e Torre Annunziata.

Ai funerali del Colonnello Luigi Corsi che si era stabilito a Portici, vicino allo stabilimento,parteciparono tutti i suoi vecchi operai

Angelo Manna PDF Stampa E-mail

dal sito "Amici di Angelo Manna"

Angelo Manna nacque ad Acerra l? 8 giugno del 1935 da Raffaele e Fulvia Montano. I primi passi li mosse a Roma, dove il Pap? ricopriva un importante incarico ministeriale. Non tard? molto a mettere in mostra la sua spiccata personalit?, il modo tutto suo di vivere fuori dagli schemi. Infatti, a poco meno di 8 anni, d?iniziativa e senza alcuna specifica preparazione, nella Parrocchia sotto casa si present? all?Altare per assumere la Prima Comunione. La mamma, pia donna, si convinse che Angelo non si fosse macchiato di sacrilegio, solo quando il Parroco di Via Albalonga, tranquillizzandola, le spieg? che mai, come in quell? occasione, ci fu in un bambino tanto trasporto e tanto desiderio ad accostarsi al sacramento della Comunione... trasporto per? ? andato via via affievolendosi. Angelo non ? stato mai molto praticante specie per un cattivo rapporto con i preti, anche se tra i suoi migliori amici ha annoverato Padre De Cicco, suo insegnante di religione al liceo e Don Ciccio Perrotta, dai lui qualificato "prete santo" .

Nel 1948 il pap? lasci? il Ministero, e quindi Roma, per la direzione generale del Banco di Napoli. Il giovane Angelo si trasfer? ad Acerra, dove prese a frequentare le scuole locali. Ben presto divenne l?allievo prediletto delle Signorine Giulietta e Argia, due zitellone preparatissime e rigorosissime,insegnanti di materie letterarie che ebbero grande influenza sulla sua preparazione umanistica. Forte di tale preparazione affront? con successo il liceo classico a Napoli, il Vittorio Emanuele II - ironia della sorte - dove per? ben presto cominci? ad avere problemi per la ?cattiva condotta?. Insofferente alle prese di posizione immotivate dei professori, del preside, contestatore della prima ora, era ben presto assurto di fatto ad una specie di rappresentante di classe "ante litteram". Era considerato ? e non a torto ? il personaggio che in classe faceva opinione, che riusciva a coagulare attorno a s? il consenso dei compagni, di classe e non,sugli

scioperi, sui movimenti di piazza, sugli atteggiamenti da assumere, per cui ben presto divent? l'elemento da isolare, il bersaglio da abbattere. Le sospensioni dalle lezioni cominciarono a fioccare con regolarit?, culminando poi nella mancata ammissione agli esami di maturit? per il cattivo voto in condotta e nell?espulsione da tutte le scuole della Repubblica (erano davvero altri tempi!). Solo presentandosi da privatista riusc? a superare, peraltro brillantemente, l?esame di maturit? e si iscrisse alla Facolt? di Giurisprudenza dove segu? un corso di laurea regolare riportando tra l?altro, coerentemente col suo personaggio, la massima votazione in alcuni esami, alternato a qualche 18 a maggioranza. Terminato il corso di studi ufficiali ? gli altri verso i quali si sentiva sempre pi? attratto sono proseguiti fino all?ultimo - volle provare a fare il giornalista.

Fu assunto nel 1960 al "Mattino" - quello di Ansaldo, soleva ripetere - dove ben presto si segnal? per le sue doti non comuni : una cultura profonda ed una invidiabile facilit? di esposizione.

Erano gli anni in cui mise su famiglia, scriveva, componeva musica al pianoforte, che suonava benissimo ad orecchio, era pienamente impegnato in vari campi. Appassionato di arte e di musica - suo continuo cruccio ? stato quello di non essersi iscritto al Conservatorio - era corteggiato in tutti gli ambienti. Si muoveva con estrema padronanza in qualsiasi contesto, essendosi formato alla scuola del "marciapiedi" e dei salotti eleganti, praticando disinvoltamente i vicoli lerci di una Napoli decadente e gli splendidi musei e le biblioteche di una ex Capitale, i quartieri-ghetto e quelli residenziali. In redazione, a detta dei responsabili, era capace di svolgere in poco tempo il lavoro che impegnava i suoi colleghi per un?intera giornata. Era una persona che ragionava di testa sua e, quindi, difficilmente influenzabile. Insofferente per natura a qualsiasi forma di inquadramento in schemi precostituiti, ben presto ebbe vita difficile nell?ambiente di lavoro.

Licenziato da "Il Mattino" una prima volta e poi reintegrato per ordine del Giudice, fu licenziato una seconda volta nel ?79 con la motivazione di "un chiaro dissenso alla linea politica del giornale". La verit? ? che oramai era diventato un personaggio scomodo per tutti. Senza peli sulla lingua, come suo costume, attraverso un?emittente privata, nella sua trasmissione "Il Tormentone", si pose in una posizione di forte contrasto con la propriet? del Mattino, la milanese Edime di Rizzoli e col direttore Responsabile Ciuni. Era il tempo in cui venivano resi noti i nominativi degli appartenenti alla Loggia massonica P2, tra i quali, appunto, Rizzoli e Ciuni, e naturalmente Angelo non perdette l?occasione di diramare, a suo modo, la notizia sottolineando lo stato di degrado del "suo" giornale, dal quale ovviamente n? Lui, n? il Mezzogiorno si sentivano pi? rappresentati.

Lasciato il Mattino, prosegu? la sua battaglia con il Tormentone, una serie di trasmissioni auto-gestite, con cadenza settimanale, con le quali si schierava apertamente contro i politici corrotti, facendo nomi e richiamando puntualmente le situazioni, ponendosi cos? come una sorta di precursore di "mani pulite". Voleva moralizzare il mondo, esponendosi in prima persona, con un atteggiamento da guascone che tanto piaceva a chi l?ascoltava. Rischi ne ha corsi tanti ? il "potere" per tentare di distruggerlo, lo accus? persino di camorra costruendo artatamente una schiera di "pentiti" ? ma Lui, testardo come un asino, proseguiva diritto per la sua strada, con un coraggio misto ad incoscienza ma sempre con encomiabile coerenza. Aveva un indice di ascolto altissimo perch? il suo eloquio era accessibile a tutti ? anche a Peppenella, "a contrabbandiera d? ?o puntone" come amava ripetere - tanto che presentandosi alle elezioni politiche del 1983, in un partito allora di minoranza, riport? oltre 83 mila voti di preferenza suscitando, peraltro, il disappunto del suo capolista al quale, evidentemente, faceva ombra?

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Carlo Alianello PDF Stampa E-mail

di Gianandrea de Antonellis

Carlo Alianello

Scrittore umano e popolare

Carlo Alianello (1901-1981) è uno scrittore meno conosciuto di quanto meriterebbe: emarginato dalla critica attenta alla forma perchè nella sua opera non si riscontrano elementi di particolare innovamento linguistico; disprezzato dalla critica attenta ai contenuti perchè decisamente controcorrente (ai nostri giorni si dice: non politically correct). Le antologie scolastiche non lo citano, i volumi di approfondimento lo ricordano solamente di sfuggita, eppure questè uomo umile, dedito all'insegnamento, senza pretese di protagonismo nonostante i premi letterari conquistati (e, nel suo caso, possiamo ben dire a pieno merito), seppe scrivere in maniera semplice riuscendo a raggiungere, nonostante la corposità dei suoi volumi, l'animo dei lettori.

'Il mio talento è quello di narratore di favole, di cantastorie o, se si preferisce, di aedo'  affermò una volta: ed in effetti il suo sforzo è sempre stato quello di rendere accessibile a tutti, con la semplicità del linguaggio e l'interesse dell'intreccio, vicende che è bene facciano parte integrante della nostra cultura, narrazioni che la storia ufficiale ha voluto cancellare e che possono essere rese note più facilmente sotto l'aspetto di romanzi storici piuttosto che attraverso imponenti saggi che non potrebbero mai raggiungere la stragrande maggioranza dei lettori.

Non un semplice divulgatore, ma molto di più: un poeta che utilizza come materia la storia della propria terra, perchè questa non venga obliata. In questo senso può reggere il paragone con Omero: l'aedo cieco cantava le gesta di una Grecia ormai mitica, perchè non venisse dimenticata, come Alianello cerca di vivificare nell'arte le patrie vicende, liberandole dalla polvere degli archivi.

Annota a questo proposito Marcello Camilucci: 'Alianello, sotto questo riguardo, ci sembra occupare una posizione mediana tra Balzac e Manzoni: il suo interesse per la storia nasce da una radice che partecipa della sociologia e della spiritualità, evitando gli eccessi del positivismo zoliano e le inquadrature metafisiche dei romanzi ottocenteschi. La meditazione sulla storia tenta di dissociarsi il meno possibile dallo svolgimento della storia stessa senza precludersi però quei cantucci distensivi e riflessivi nei quali lo spirito del gran Lombardo si concedeva il lusso di contemplare dall'alto la sua matassa. Ne nasce un ritmo ordinariamente celere con qualche pausa nel quale lo stomaco della storia fatica a digerire quanto ha ingurgitato e gli si agita confusamente dentro .

Il paragone con Manzoni o con Balzac non sembri ardito: il livello della scrittura alianelliana è sicuramente alto; e se non siamo di fronte a tentativi di sostanziale rinnovamento linguistico che hanno dato fama ad altri autori, esiste una fondamentale novità nell'uso del dialetto, che Alianello utilizzò in maniera completamente differente da due suoi illustri contemporanei, Pasolini e Gadda. Il primo ne godette come di un gioco per le sue doviziose offerte scatologiche  e l'altro lo trasformò in un divertimento barocco; al contrario, Alianello lo colse nel suo rapporto che è di amore e di discordia ad un tempo con la lingua, nel suo naturale e prepotente fiorire ed esplodere ogni volta che l'intimità del personaggio è sollecitata in una sfera e con un'intensità nella quale non riesce più a tradursi, a cercare la mediazione di una lingua a tutti comune, ma deve trovare uno sfogo immediato al livello bruciante del sentimento e dell'istinto . Usato sapientemente è anche se alcuni puristi contestano la limpidezza del lucano, troppo spesso è contaminato dal napoletano è il dialetto non volgarizza la storia e i personaggi, ma corrisponde al loro sospiro ordinario: 'Il dialetto in tal modo non solo non risulta fastidioso ed ingombrante (come nella maggior parte delle sperimentazioni neoveriste) bensì contribuisce una sorta di musica di fondo grave e misteriosa che lega intimamente i personaggi e i fatti all'ambiente naturale e storico nel quale vivono .

Ma non è solo questione di sfogo immediato al livello bruciante del sentimento e dell'istinto, perchè negli anni successivi all'annessione piemontese l'uso del napoletano (o del lucano, del calabrese, del veneto o di qualsiasi altro dialetto, meridionale o set-tentrionale che fosse) aveva anche un preciso intento ideologico: il rifiuto della lingua italiana, del riconoscimento di un asservimento culturale. Negli anni successivi al 1860 parlare napoletano o, più precisamente, ostinarsi a parlare napoletano  era come mettersi addosso una coccarda borbonica: numerosi sono gli attestati, sia contemporanei che più recenti, di una simile concezione. Ne L'inghippo il primo problema del protagonista, nobile lucano, ma garibaldino, massone e infine filosabaudo,  appunto quello di sforzarsi di cancellare ogni residuo della parlata paterna, anche solo quando pensa: purtroppo per lui non gli riesce  e se ne rammarica non poco  di sostituire la parola papà con il toscaneggiante e più ufficiale babbo (che gli ricorda più un insulto siciliano  dove babbo sta per sciocco  che la dolce figura paterna).

Scrittore borbonico

Alianello scrittore e cantore della sua terra, dicevamo. E tra le opere dello scrittore lucano vi sono almeno cinque lavori che possiamo definire borbonici (anche se lo scrittore teneva a precisare di non essere un "borbonico" ): cerchiamo di analizzarli brevemente, seguendo non l'ordine cronologico in cui essi furono scritti, bensì la sequenza storica della materia trattata.

Soldati del Re

Premio Valdagno-Marzotto nel 1952, è una serie di tre racconti intrecciati tra di loro ed ambientati in una giornata dei moti del 1848. La scrittura è assai sapiente ed Alianello gioca con i suoi personaggi e con i toni, passando dal drammatico al grottesco, se non addirittura al comico, per poi tornare al tragico ed al patetico, con accenti di altissima poesia. Il mito della "rivoluzione popolare" viene spogliato di tanta retorica patriottarda e ridimensionato ad una serie di fatti in cui, più che l'eroismo, dominano le rivalità, spesso assai meschine che opponevano la borghesia rampante alla nobiltà dominante.

Particolarmente struggente è l'ultimo episodio: Rocco, un soldato semplice (in tutti i sensi), viene ucciso da un dimostrante, un borghese che studia da notaio. Dopo la morte i due vengono giudicati da un tribunale celeste, in cui però gli arcangeli ed i santi sono vestiti in uniformi borboniche. La dolcezza del povero cafone, mite con chiunque (al punto da non aver impedito ad una recluta di scappare dalla caserma per andare a salutare i parenti, cosa che gli costò a suo tempo la degradazione) e buono soprattutto da non aver fatto immediatamente fuoco sullo studente che tentava di disarmarlo, viene contrapposta allo strafottente cinismo del borghese, orgoglioso fino alla morte  ed oltre  nel suo disprezzo verso il povero illetterato. Viene qui anticipata di quasi vent'anni la polemica che vedrà Pasolini condannare i manifestanti sessantottini, figli della grassa borghesia, pronti a tirare sassi contro i poliziotti, veri figli del popolo, salvo poi rifugiarsi sotto le gonne di papà o a far brillante carriera in politica, nelle università, nelle aziende, nei giornali... Il processo celeste si chiude con l'assoluzione del povero Rocco, mentre lo studente continua ad essere incredulo e protervo nel suo rifiuto di accettare la realtà ultraterrena, anche quando essa si presenta chiaramente ai suoi occhi.

L'alfiere

Pubblicato nel 1942, conobbe un grande successo (e nel 1956 divenne uno sceneggiato televisivo in sei puntate), tanto da essere considerato quasi un testo premonitore dai combattenti coinvolti nella guerra civile. La leggenda vuole che molti soldati della Repubblica Sociale lo portassero con sè: negli avvenimenti dell'invasione sabauda e della conseguente guerra civile del 1860 essi vedevano rispecchiate le loro vicende e si identificavano in chi, come l?alfiere Giuseppe Lancia, aveva deciso di mantenere fede all?impegno preso con il giuramento militare. Li accomunava anche lo stesso tipo di guerra, destinata ad essere perduta e che proprio per questo appariva più gloriosa. Senza speranza, come il motto dei difensori di Civitella del Tronto ripreso da alcuni reparti della R.S.I.

Il romanzo ècostituito dall'ntrecciarsi delle storie di Pino Lancia, giovane ufficiale di cavalleria, e di fra'Carmelo da Acquaviva, un francescano ammiratore di Garibaldi: le due vicende finiranno per avere un epilogo comune, con il carmelitano che diverràcappellano militare del manipolo di Pino, riuscendo a raggiungere quasi miracolosamente Gaeta per l'ultima, inutile resistenza. Inutile come l'amoreche il giovane tenente nutre per la dolce Titina, una fanciulla del suo paese di origine in Lucania, che lo ammira e che non osa svelargli il suo amore, anche quando lo salva dalla congiura ordita contro l'ufficiale borbonico dai liberali del paesino. Pino ha conosciuto altre due donne, Renata, fredda e bellissima figlia di una ammiraglio traditore e Ginevra, nipote della governante, ragazza affascinante, ma volgare. La lontananza accresce il suo affetto per Titina, trasformandolo da semplice riconoscenza in puro amore, ma, dopo mesi di distacco, in seguito alla vittoriosa sortita di Caiazzo, egli verrà asapere che la fanciulla èstata uccisa proprio pochi istanti dopo aver liberato Pino. Il tenente ha così vissuto per un fantasma, per un essere già morto, così come ha combattuto per una guerra già persa, per un regno già caduto. Ma fino all'ultimo ha voluto credere, sperare, ed il romanzo si chiude sulle parole di un ufficiale ferito gravemente, il quale, a metà strada tra il delirio e la lucidità, mentre la bandiera biancogigliata viene ammainata definitivamente, continua a gridare: 'Io non mi sono arreso!'.

L'eredità della priora

Pubblicato nel 1963 e Premio Selezione Campiello, è ben più di un semplice romanzo storico: si tratta di un vero e proprio atto di accusa, in forma letteraria, nei confronti della guerra contro il cosiddetto brigantaggio politico, condotta con estrema violenza da parte dell'esercito piemontese (è difficile riuscire a definirlo italiano) nei territori dell'ex Regno delle Due Sicilie. Basandosi su rigorose ricerche storiche, poi sfociate nel 1972 in un saggio storico crudamente intitolato La conquista del Sud, Alianello tesse una fitta trama basandosi su tre figure di ufficiali borbonici che, dopo la caduta del Regno, tornano in Lucania per comandare le bande di insorgenti che si dovrebbero formare. Naturalmente, non potendo falsare la Storia, tutti e tre falliranno questa missione: Ugo Navarra finirà ucciso come un volgare brigante e la sua memoria sarà infamata; il barone Andrea Guarna, protagonista principale e nipote della Priora del titolo, dopo alcune vicissitudini più che altro politiche (in qualità di infiltrato nella nemica Guardia Nazionale), tornerà a Roma dopo esser riuscito 'solo' a convertire la cugina, cresciuta in Svizzera tra calvinisti e mazziniani, alla vera Fede; infine Gerardo Satriano, per evitare la condanna a morte, sarà costretto a fuggire in America dove si arruolerà nell'esercito nordista per partecipare in qualità di mercenario alla guerra di secessione.

Nonostante le quasi seicento pagine, il romanzo è di agevole lettura, conquista il lettore e lo trascina in un ambiente ricostruito alla perfezione, dove si incontrano personaggi mirabilmente descritti, dal Maestro di loggia al legittimista illuso, dallo speculatore senza scrupoli che arruola indifferentemente per la causa borbonica o per l'esercito nordista al murattiano che crede di aver trovato l'occasione per restaurare la dinastia napoleonide. Se L'alfiere era stato un romanzo in cui prevaleva l'azione militare (era ambientato nel 1860, quindi in piena guerra), ne L'eredità della Priora (che riporta fatti dell'anno successivo, quindi di 'guerriglia') è l'elemento politico a predominare. Ci si rende conto come la bella pur se sfortunata guerra che aveva vissuto il baroncino Pino Lancia è praticamente morta: al suo posto si combatte una battaglia di nervi, di logoramento e purtroppo di corruzione; gli elementi della Guardia Nazionale sono tutti borbonici che vestono l'uniforme piemontese, pronti ad inalberare le insegne gigliate non appena sarà giunto il momento ma, purtroppo, capaci di continuare a servire il tricolore se tale momento non dovesse arrivare.

Per questo la pagina che tiene maggiormente sospeso il lettore è quella del (mancato) attacco da parte delle truppe del generale Borjes e di Crocco a Potenza: sotto una pioggia battente la Guardia aspetta, pronta ad accogliere come vincitori lo Spagnolo ed il brigante, trattenendo il respiro in attesa di un momento che non arriverà mai.

La conquista del Sud

Scritto nel 1972 non è un vero e proprio romanzo, bensì un saggio romanzato: l'autore non espone aridamente il frutto di lunghi anni di ricerche, molte delle quali avvenute in archivi privati, ma, conscio di essere in primo luogo un artista, le riveste di un'aura poetica. Ad esempio, viene descritto con estrema efficacia l'episodio che dette luogo al ferocissimo e spropositato massacro di Pontelandolfo e Casalduni (14 agosto 1861).

I garibaldini avanzano in mezzo alle campagne e sentono un coro di preghiera: sono i contadini che si preparano alla semina ritmando con le orazioni il proprio lavoro. Ciò rassicura i soldati in camicia rossa che procedono nella loro marcia; solo quando si sono troppo addentrati si rendono conto che quello non è il tempo per certe attività agricole: sono caduti in un'imboscata in cui le parole d'ordine sono date dai versetti delle preghiere. L'ordine viene dato e l'assalto dei briganti inizia; sono solo roncole e bastoni contro fucili, ma il coraggio di chi le imbraccia è esaltato sia dall'odio verso i crudeli invasori, sia dalla ferma fede in chi li guida e nello strumento che impugna: il parroco con un crocifisso.

La prosa di Alianello sa piegarsi alle necessità del saggio, ma le sue pagine rimangono comunque degli esempi di commovente poesia: lo scrittore si rivela così capace di insegnare la storia in maniera semplice ed espressiva, avvicinando coloro che potrebbero essere spaventati dall'idea di affrontare un ponderoso tomo scientifico o che, viceversa, ritengono sprecato il tempo utilizzato a leggere un romanzo.

L'inghippo

Un'opera scritta da un autore anziano, che ha come protagonista un uomo altrettanto anziano. Rispetto ai romanzi precedenti l'azione si riduce ulteriormente, lasciando posto allo scavo nell'intimo dei personaggi: si svolge tra il 1894 ed il 1896, tra lo scandalo della Banca Romana e la disfatta di Adua. L'inghippo del titolo è costituito da un paio di cambiali della Banca Romana, firmate dall'onorevole Francesco Fortemanno, barone lucano e combattente garibaldino pluridecorato, passato successivamente tra le fila del centro monarchico; dei trascorsi rivoluzionari ora mantiene solamente la violenta avversione per il clero. Disperato per le cambiale firmate, che in mano ai suoi nemici potrebbero divenire armi terribili, rimane a dir poco sgomento quando viene a sapere che esse sono state riscattate dal clero stesso su richiesta della sorella dell'onorevole, la marchesa Leopolda, che ha così evitato ogni scandalo. Il gesto generoso non gli fa mutare alcun sentimento e quando, dopo la battaglia di Adua, il figlio Vittorio viene fatto prigioniero dagli Abissini, profilatasi la mediazione del Papa presso il Negus, pronuncia un discorso violento discorso contro l'eterno Nemico di lì dal Tevere affinchè il Re ed il governo rifiutino di scendere a patti col Pontefice.

Il gesto disconoscente (ed impostogli dalla massoneria) crea una insanabile frattura con la sorella ed a nulla vale il miracolo mariano di cui Vittorio è protagonista in Africa: il giovane decide di rinunciare al matrimonio e va a fare il missionario laico in Etiopia, mentre il padre si ritira dalla politica e si chiude in se stesso. A livello più alto, la Chiesa dovrà ancora aspettare trent'anni per riallacciare i rapporti con lo Stato italiano, mentre il parlamento giolittiano si rivela una accozzaglia di individui pronti a schierarsi dalla parte del più forte, pari per vigliaccheria solo alla classe dei giornalisti; lo stesso esercito si dimostra incapace di compiere il proprio dovere, ripiegato com'è sugli allori delle passate vittorie.

Alianello trasferisce in questa sua ultima opera tutta la propria amarezza: deluso dalla vita quasi tronca il romanzo con un finale che pare dirci che sì, la vita continua, ma non ci può certo offrire tutte le gioie che ci aveva promesso. Il matrimonio tra i due cugini, sospirato fin dalle prime pagine del romanzo, non si avvererà: il Fato separa i due cugini, destinando l'una ad un freddo matrimonio di convenienza e l'altro ad una dura vita in Africa. Dalla loro unione sarebbero derivate non solo la riconciliazione tra i due genitori, fratello e sorella divisi da tante discordie, ma anche la rinascita della famiglia Fortemanno e l'ideale pacificazione tra il mondo tradizionale ed il mondo nuovo, tra le due anime di un'Italia lacerata profondamente. Questo messaggio di speranza, però, si infrange: e come con Vittorio, deciso a ritirarsi in Africa, si estingue il sangue dei Fortemanno, così i valori positivi del rinnovamento sono perduti, lasciando il posto (ed il potere) alla borghesia più arida e dura.

Interessante anche il rapporto di amicizia tra i camerieri dei due fratelli: i lucani: Rocco e Maria Donata, servitori del barone (Rocco fu attendente di quest'ultimo nella spedizione dei Mille) e i romani Romolo e Laurina, fedeli alla marchesa (lui combattè anche a Mentana, quando i 'garibaldesi' furono sconfitti ignominiosamente dai soldati pontifici ed affermarono  contro la verità storica  di essere stati battuti dalle truppe francesi, che invece giunsero sul campo a battaglia terminata).

Scrittore cattolico

Fausto Gianfranceschi ha definito Alianello come uno scrittore di ispirazione cattolica per il quale 'il principio di selezione etica trascende il calcolo del successo storico: gli uomini debbono svolgere il ruolo assegnato ad essi dal destino anche se è contro la Storia, perchè giudice è Dio e non la Storia (cioè il divenire umano)' . Definirsi cattolici, nel mondo attuale, è spesso un atto di coraggio. Ed Alianello stesso non aveva remore a farlo. A questo proposito una significativa pagina si trova in Lo scrittore o della solitudine, una sorta di struggente autobiografia: ricordando il suo ingresso, da fanciullo, in un collegio dedicato alla Madonna, ne rievoca un momento saliente. Nella cerimonia d'ammissione io mi son votato a Lei, come, secondo la vecchia formulazione feudale, cavaliere a Dama e Signora. Ho giurato e, se non ho sempre mantenuto il mio giuramento, non fu mai per infedeltà, ma per debolezza, così come quando il cavaliere si alleggeriva talvolta di corazza, giaco e morione; l'armatura di ferro è dura a portarsi, dura milizia è la vita degli uomini.

Per quella fede donata, quel prestato giuramento non l'ho scordato nè lo dimenticherò mai per l'onore della mia Dama, neppure quando non vi saranno più nè luoghi nè tempi per correr quintane e nessun infedele porterà più colori avversi contro il suo azzurro manto. Resterà un nome solo, un tempo incommensurabile, un unico confine senza limiti nè misure: l'eternità, dico, nel nome di Dio .

Il mago deluso

Pubblicata da Mondadori nel 1947 (vinse il Premio Bautta), narra le vicende del ventottenne professor Massimo Daliano che si trasferisce a C. (in cui si riconosce Camerino) per occupare la cattedra di biologia dell'università. Alloggiato presso la famiglia Zapponi, si trova circondato da vari strani personaggi: Venanzio (organista del Duomo) che ha fama di mago, sua sorella Agnese quella di santa e la loro madre di sibilla. I tre sono peraltro inquilini della conturbante e chiacchierata Concita.

Massimo, ateo e materialista, dapprima si diverte a tali dicerie; quindi viene a mano a mano attratto dal vortice di spiritualismo che aleggia nella casa; quando, quasi per staccarsi da tale atmosfera, accetta l'amore della propria assistente Letizia Giani, inizialmente tenuta a distanza anche perchè fidanzata di un altro professore, improvvisamente Concita si fa avanti, anche se per interposta persona. Infatti è il maestro Venanzio, il mago, che gli chiede di rispondere ' castamente ' alla passione di Concita: solo così, con due anime amanti e caste potrà egli raggiungere lo scopo della sua opera, che non è la trasmutazione dei metalli, bensì quella delle anime. Ma l'amore di Massimo e Concita non sarà casto e porterà tragiche conseguenze, con le morti sospette del mago e della donna fatale. Il finale, in un rapido crescendo, vede Massimo perdere la sicurezza del proprio scetticismo: la fede, piano piano, gli entra nell'anima, in quell'anima che lui ha da molto tempo negato esistere: così prega con la buona Agnese e, forse, troverà la sua strada nell'amore per Letizia, anch'essa 'buona cristiana', come tiene a definirsi.

Maria e i fratelli

Scritto nel 1955, è la rilettura della storia di Gesù Cristo attraverso una modernizzazione del linguaggio. L'autore giustifica questa sua scelta analizzandola puntualmente, per poi concludere: La forma fissata in eterno è l'ideale della mummia che si conserva bene, ma non vive. Un'altra cosa. Chi volesse informarsi meglio dei principali personaggi di questo libro, se il mio lavoro avrà la fortuna di interessare qualcuno, può consultare con profitto uno dei SS. Evangeli o tutt'e quattro. Ce ne sono delle ottime edizioni, molto curate .

Fin dall'inizio l'autore mette l'accento sulla regalità della ascendenza di Gesù, sotto-lineando come sia Giuseppe che Maria provengano dalla stirpe di Davide. La nobiltà della Madonna, poi, si esprime attraverso il suo dignitoso comportamento, il suo distacco dai beni materiali, così diversa dall'ipocrita sacerdote del tempio, che trattiene il popolo dal raccattare i trenta denari sparsi da Giuda, affermando che essi siano 'roba sporca' in quanto frutto del tradimento, ma, una volta allontanatasi la folla, si affretta a raccattarli uno per uno.

Il corso dei capitoli più drammatici, quelli sulla Passione e sulla Morte di Nostro Signore, sono enfatizzati da un taglio 'cinematografico'. Parimente emozionante è l'incontro con Pilato: chiunque viene a contato con Gesù rimane colpito dalla sua figura e il procuratore romano per un tratto decide di rischiare tutto per salvarlo, ordina l'assetto di battaglia e sogna di poter far schiacciare dalla propria cavalleria la plebaglia radunata nel cortile del pretorio, quella stessa plebaglia che gli sta chiedendo a gran voce il sangue di un innocente ('E il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! Sangue! Sangue!).

Eppure, nonostante tutte le premesse, il romanzo non venne apprezzato (come accadde al più modesto Nascita di Eva, Vallecchi 1966). Così ne scrisse il critico Fausto Montanari: Il libro ha avuto una modesta fortuna: troppo religioso per i laicisti; troppo laico per i cattolici. La sorte di quasi tutti i libri cattolici vivi e intelligenti nel nostro ambiente italiano . Per questo, quando nel 1970 pubblicò una sorta di diario, lo intitolò amaramente Lo scrittore o della solitudine, conscio di non poter essere apprezzato da una critica  anche sedicente cattolica  anzi di una  consorteria di sprovveduti, fra critici, autori ed editori, i quali altra ricchezza non hanno che l'appoggio dei politici, anzi d'una sola politica, quella dei sinistrorsi d'ogni sfumatura, carminio, rosso scarlatto, rosa, rosaceo, malva, cinabro o solferino, nonchè dei grossi capitalisti che gli sono alleati, i quali altro interesse non hanno che ridurre l'arte a un fatto industriale, qualunque arte è diventata cosa bigia, tetra, miserabile , capaci di modellare un 'catechismo nuovo' cui è mancano solo le litanie dei santi, dei loro santi: Santa Venere Cloacina, detta a Roma anche santa Chiavica, san Priapo mortificato e martire, eppoi san Lutero, san Calvino, san Zwiglio e via via, attraverso Kant ed Hegel fino a Marx, al santissimo Lenin, al beato Stalin e al venerabile Marcuse, di santità appena fiorente .

Storia di Oricola... Reazione borbonica PDF Stampa E-mail

STORIA DI ORICOLA... Reazione borbonica

Testi liberamente tratti dal libro Oricolae Contrada Carseolana nella storia di Nostra Gente

I partigiani della dinastia borbonica, con il miraggio di riconquistare il regno, con la rivoluzione, sobillavano, specie nel ceto del contadini della Calabria, del Molise e dell'Abruzzo, per la insurrezione contro il nuovo regime.

Tale reazione venne a prendere serio sviluppo, in questi luoghi, per opera del colonnello borbonico Lagrange e di quel tal Giacomo Giorgi di Tagliacozzo, che si era posto a capo degli sconvolgimenti politici, nella regione Marsicana e cicolanense.

Celebri furono le bande di legittimisti, fiorite nel vicino Cicolano, che contarono sino a tremila uomini le cui gesta tanto bene e minuziosamente venivano raccontate dal dottor Longini nelle sue Memorie storiche della regione equicola. Nella storia, i fatti non si improvvisano e non si creano, nè può l'immaginazione supplirne le deficienze, con elevati voli pindarici: quindi senza vestirmi delle penne di pavone, che tanto facilmente mi si potrebbero togliere di dosso, son ben lieto di dichiarare che da detto e da molti altri autori attinsi e ebbi gli elementi di quanto vado scrivendo.

Le bande dei legittimisti del Cicolano, per lo più prendevano per punto di concentramento Fiamigiano, sotto il comando di Giuseppe di Giovanni di Colle Giudeo, di Giacomo Saporetti e di Fiore Sallustio di Sambuco, di Aurelio Ricciardi di Castagneta e di Girolamo Di Girolano di Tonnicoda. Il colonnello borbonico Luverà, con un esercito di tremila uomini, dallo Stato pontificio, transitato il nostro agro e il Carseolano, aveva proseguito verso Tagliacozzo. Col gli tenne fronte, , il maggiore Pietro Ferrero il 12 gennaio 1861, con due compagnie di appena duecentodieci soldati, il quale dopo aver causate gravi perdite , con un'ordinata ritirata, si ritrasse in Avezzano.

Il 13 gennaio, i borbonici furono messi in fuga, dopo un accanito scontro, in Scurcola Marsicana, dall'esercito presidiario di Avezzano. In conseguenza di che il giorno successivo vennero fucilati settanta ledittimisti, rinvenuti in quel paese, fra i quali uno di Oricola a nome Francesco Filippi fu Benedetto, alias Valechetta, di anni 34. Questi seguendo il Luverà, aveva gettata la propria vanga, in contrada Spineta, di questo territorio, ove si era recato a lavoro, dicendo: "o libertà o morte".

Un altro contadino di Oricola, Stefano Ciaffi,seguì il Luvarà , che si aggirava in questi luoghi, allo scopo appunto di fomentare una reazione, contro il regime italiano, ne aveva seguito l'esercito. Ma a Scurcola Marsicana, avvisato in tempo da un tal Fumera della vicina Poggio Cinolfo, con le parole: "Alza i tacchi Stefano" si dava a precipitosa fuga; e alzando veramente i tacchi, insieme al preveggente compagno, si restitui, con la celerità della folgore in residenza, allontanando, per sempre, il pensiero reazionario. Dopo i raccontati avvenimenti, parte degli insorti tornarono ai propri luoghi e parte a Tagliacozzo, da dove per timore di essere assaliti, si ritirarono a Carsoli.

Da li il generale ebbe l'idea d'impadronirsi della vicina Collalto, che, situata sulla cima di un monte e munita di una valida rocca cinta di mura, offriva un sicuro asilo di difesa. Con tale intenzione, il 12 febbraio 1861, mandò duecento uomini, con l'incarico di impadronirsene di sorpresa. Ma quella popolazione, prevedendo il caso, aveva sbarrate le due porte del paese: da qui la necessità degli inviati, di tornare prudentemente indietro. Il Luverà, non volendo rinunciare al piano prestabilito, il giorno successivo, postosi alla testa di 1500, tra reazionari, borbonici e zuavi pontifici, marciava su Collalto, i cui cittadini,narcotizzati dalla illusione unitaria italiana si posero sul castello con fucili e sassi,ed opposero viva resistenza.

In un torrione del muro di cinta, vi era un'apertura appena sufficiente per il passaggio di una persona, e lì collaltesi avevano posto a guardia quattro robusti giovani armati di scure, con l'ingiunzione di uccidere quanti nemici ardissero varcare quel passo.

Si accese un aspro fuoco di fucileria; parecchi borbonici vi rimasero uccisi, altri feriti; ma i collaltesi lasciati alla custodia del torrione perforato, invasi da panico, abbandonarono il posto di consegna, dando adito a una diecina di nemici di penetrare nell'interno del muro di cinta e di aprire una delle porte d'accesso. Entrati immediatamente in paese i borbonici trovarono che gli abitanti si erano riuniti nella Chiesa parrocchiale, con la speranza venisse rispettato il sacro tempio. Don Antonio Latini, parroco del luogo, con il crocifisso in mano e il suo germano dottor Bartolomeo, sventolando un fazzoletto bianco, chiedevano pace per tutto il popolo.

Ma i borbonici, esplosero una fucilata in pieno petto al dottore, che rimaneva fulminato a terra. Successivamente si recarono nel castello, ove ne uccisero il guardiano che risultava come accanito liberale, nèvenne fatto pultiglia informe, con ripetuti colpi di baionetta. Dopo di che, avendo avuto sentore della resa di Gaeta, piombarono su Oricola, posta sui confini del regno e perciò asscurata la loro salvezza in caso di avversario assalto. 

All'arrivo delle truppe italiane, Luvarà riparò ello Stato romano. In queste contrade si ebbe una reazione nella vicina Pereto. Ricorreva in quel paese, nella prima domenica di Ottobre del 1860, la festivitàdella Madonna del Rosario e in quella circostanza, quindici militi della guardia nazionale di Carsoli, con a capo il capitano Luigi Marj, vi si erano recati.

Mentre questi si trovavano in casa di Elia Penna, che allora era diventato uno dei più cospicui proprietari del luogo, vennero fatti segno a una clamorosa dimostrazione ostile. Nella falsa idea di non provocare quella popolazione, commisero l'errore di uscire, nella sottostante via, senza armi e furono malmenati dai borbonici. I giovani, chi più chi meno feriti, riuscirono a salvarsi con la fuga, ma un tal Benedetto De Luca filogaribaldino, di anni 50, entro l'abitato in Via del Selciato, vi rimase vittima. Come pure Luigi Marj, di anni 52, appartenente alla primaria famiglia del Mandamento, riuscito a svincolarsi, data la sua forza erculea, fuggì, ma raggiunto a circa mezzo chilometro dal paese, nella località Isola, fu sopraffatto dal numero e, con una vera lapidazione, ucciso.

I lager risorgimentali PDF Stampa E-mail
I lager risorgimentali
di Stefania Maffeo - 12/06/2006

Fonte: centrostudifederici



Migliaia di soldati borbonici nei lager del Nord
Dopo la conquista del Sud, 5212 condanne a morte.

Prigionieri e ribelli puniti con decreti e una legge del 1863

Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi
al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione
consumata all'indomani dell'Unità d'Italia dai Savoia. La prima pulizia
etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni
meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti
del 15 agosto 1863 " per la repressione del brigantaggio nel
Meridione? 1.
Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra
per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di
vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria.
Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e
dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile comandamento di destino: "O
briganti, o emigranti".
Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: "
genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una
nazione esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni
miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi
nazionali. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione
delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei
sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi
nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà,
della salute, della dignità e persino delle vite degli individui non a
causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo
nazionale".
Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa
cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri,
perfino bambine (figlie di "briganti") costretti ai ferri carcerari. (
Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui
furono rinchiusi i soldati "vinti". Il governo piemontese dovette
affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito
borbonico (su un giornale satirico dell'epoca era rappresentata la
caricatura dell'esercito borbonico: il soldato con la testa di leone,
l'ufficiale con la testa d'asino, il generale senza testa) e 24.000
soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di
Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la
pietas che sarebbe stata più utile, forse necessaria. Un primo
tentativo di risolvere il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre
1860, anche se le prime deportazioni dei soldati duosiciliani
incominciarono già verso ottobre del 1860, in quanto la resistenza
duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non coordinati
nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa fu
presentata come espressione di criminalità comune. Il decreto chiamava
alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al
1860 nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento. Si
presentarono solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si
diedero alla macchia e furono chiamati "briganti".
A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o
nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che
istituì "Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto esercito delle
Due Sicilie". (La Marmora ordinò ai procuratori di "non porre in
libert? nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito". (Per la
maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se
molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova,
da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano
smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S.
Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova,
Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena,
Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.
Presso il Forte di Priamar fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe
Santomartino, che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla
caduta del baluardo abruzzese, Santomartino fu processato dai
(vincitori) Piemontesi e condannato a morte. In seguito alle pressioni
dei francesi la condanna fu commutata in 24 anni di carcere da scontare
nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, una notte, fu trovato
morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che aveva tentato di
fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta
un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso.
In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento
di "correzione ed idoneit? al servizio", i prigionieri, appena coperti
da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po' di
pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni
tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli
che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente
morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie.
Quelli deportati a Fenestrelle 2, fortezza situata a quasi duemila
metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del
Chisone, ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari
borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio
nell'esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente
fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai
piemontesi) subirono il trattamento più feroce.
Fenestrelle più che un forte, era un insieme di forti, protetti da
altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella roccia, di 4000
gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperità
dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro.
Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti
tentarono anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per
impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo
ebbe come risultato l'inasprimento delle pene con i più costretti con
palle al piede da 16 chili, ceppi e catene.
Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri
popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza
luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perchè aveva
proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli
infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti
era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo
disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando
forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero
accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per
cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro
che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicchè solo dopo
molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione
logica.
Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni,
anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun
riparo, non superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono
vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in
esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano
invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità. (Dopo sei mesi
di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che
incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di
tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi. (La
liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in
uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in
una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva
all'ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza
lapidi e senza ricordo, affinchè non restassero tracce dei misfatti
compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora
visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non in quanto è ma in quanto
produce".
Non era più gradevole il campo impiantato nelle "lande di San Martino"
presso Torino per la "rieducazione" dei militari sbandati, rieducazione
che procedeva con metodi di inaudita crudelt?. Così, in questi luoghi
terribili, i fratelli "liberati", maceri, cenciosi, affamati,
affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli "liberatori".
Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, a
Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma
malarica. Tutte le atrocità che si susseguirono per anni sono
documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni
d'Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell'epoca
e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti.
Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento:
"Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti
vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che
nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle
fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte Sono
essi trattati peggio che i galeotti. Perchè il governo piemontese abbia
a spiegar loro tanto lusso di crudeltà  Perchè abbia a torturare con la
fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?".
Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli
Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula 3. Il generale
Enrico Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua
autobiografia riporta una lettera alla moglie, in cui dice:
"Partiranno, soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino...", precisando,
a proposito della resa di Capua, "...le truppe furono avviate a piedi a
Napoli per essere trasportate in uno dei porti di S.M. il Re di
Sardegna. Erano 11.500 uomini"4.
Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'et? giolittiana, che
compilò "L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per
giorno illustrata", riporta un'incisione del 1861, ripresa da "Mondo
Illustrato" di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti
nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25
chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando
il campo fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti
3.000 soldati delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a
12.447 uomini.
Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a
Gaeta e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di
"Stampa Meridionale", per denunciare lo stato di detenzione in cui
versavano, in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il
ritorno alle famiglie dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di
Messina e Civitella del Tronto ed erano già trascorsi 8 mesi. Il 19
novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte
di Cavour chiedendo di noleggiare all'estero dei vapori per trasportare
a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così scriveva al
luogotenente Farini due giorni dopo: "Ho pregato La Marmora di visitare
lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano", ammettendo, in
tal modo, l'esistenza di un altro campo di prigionia situato nel
capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani.
Questa la risposta del La Marmora: "non ti devo lasciar ignorare che
i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si
trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a
prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia e quel che 
più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni
che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perchè
non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a
Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano
scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano
a servire, che erano un branco di carò che avessimo trovato modo di
metterli alla ragione".
Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i
magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero
passivamente con l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad
ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l'occupazione
savoiarda. Particolarmente eloquente è anche un brano tratto da Civiltà
Cattolica: "Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già
trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente
crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da
cenci di tela, rifiniti di fame perchè tenuti a mezza razione con
cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle
gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri
luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce,
come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi
negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie".
Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe
Conforti, nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di
sintesi): "Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo
questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi
altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla
provincia della Basilicata sortì un prete nemico di Dio e del mondo con
una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di
essere uccisi per la fedeltà che avevamo portato allo notro patrone. Ci
hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa condicendo perchè aveva
tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono
risposto che non poteva giammai abbandonarlo perchè aveva giurato
fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire
sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a
Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a
quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio
Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri
soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato".
"Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione
mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno
portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte
all'ospidale e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito
da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30
sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2
e li  raccontato tutti i miei ragioni" 5.
Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco "chiara"
del post unificazione è stato fatto recentemente, quando un ricercatore
trovò dei documenti presso l'Archivio Storico del Ministero degli
Esteri attestanti che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare
un'isola dall'Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri,
quindi dovevano essere ancora tanti 6. (Questi uomini del Sud finirono
i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso
ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Molti di loro
erano poco più che ragazzi 7. Era la politica della criminalizzazione
del dissenso, il rifiuto di ammettere l'esistenza di valori diversi dai
propri, il rifiuto di negare ai "liberati" di credere ancora nei valori
in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati
dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei "lager dei
Savoia", uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è
giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in
molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di
adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi
ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si
lascia asservire dallo "spirito del tempo".

NOTE
1 - Legge Pica: (" Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate
dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i
componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la
quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere
crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali
militari; (Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata
mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la
fucilazione; (Art.3: Sarà accordata a coloro che si sono già
costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese
dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre
gradi di pena; (Art.4: Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare,
per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi,
ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice
Penale, nonch? ai manutengoli e camorristi; (Art.5: In aumento
dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863  aperto al Ministero
dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese
di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera dei
Deputati)
2 - Il luogo non era nuovo a situazioni del genere perchè già
Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed un
illustre napoletano, Don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici
fratelli realisti fucilati dalla Repubblica Partenopea il 13 giugno del
1799, che vi aveva passato 9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli
alla venerabile et? di 82 anni.
3 - Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e
briganti tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000.
4 - Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei
saggi "I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine,
nella rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito
del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore,
pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8.
5 - Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999.
6 - S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997.
7 - Sul sito


Fonte: http://www.cronologia.it/storia/a1863b.htm
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